La bicicletta simbolo di dinamismo ed emancipazione nella pittura di fine ‘800

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La bicicletta ha ispirato artisti sin dalla sua comparsa. 

Sul finire dell’800, la bicicletta è stata simbolo di modernità e progresso. Di emancipazione e di scontro, portatrice di istanze sociali e capace di modificare i costumi.

Non è un caso allora che i primi a volere una bicicletta nelle loro opere furono proprio quegli artisti che sfidarono il perbenismo e la morale comune, sentimenti radicati in tutto il mondo occidentale.

E ovviamente tra loro l’avanguardia furono i pittori, per questo parto da loro.

Furono tanti e questo mi obbliga a dividere il nostro viaggio nel mondo dell’arte in periodi, che non rispettano l’ortodossia delle correnti artistiche ma il mio legarli alla bicicletta impone scelte originali. Da cronista, non da storico dell’arte.

E la faccio raccontando per primo uno dei miei artisti preferiti: Henri de Toulouse-Lautrec.

Tra i massimi esponenti del post impressionismo francese, per troppi anni snobbato dalla critica ufficiale perché il suo stile di vita mal si conciliava coi valori tradizionali e soprattutto perché le sue muse erano per lo più prostitute: eppure trovatemi un altro che sia stato capace di immortalarne la sofferenza, addirittura senza nemmeno ritrarne il volto.  

Un critico suo contemporaneo scrisse: “È un bene per l’umanità che esistono pochi artisti di questo genere”. 

Il tempo galantuomo ci permette di parafrasare adesso “E’ un bene per l’umanità che esistono pochi critici di questo genere”.

Toulouse-Lautrec si appassionò subito al ciclismo, favorito dalla sua naturale curiosità e dall’amicizia con Tristan Bernard, scrittore, giornalista, poco più giovane e frequentatore assiduo dei locali parigini. Beh, era la Ville Lumiere della Belle Epoque, diciamo che un clima godereccio era naturale…

In realtà il pittore e il giornalista si conoscono da tempo perché collaborano alla stessa rivista culturale Revue Blanche, che poi la sera andassero in giro insieme è naturale conseguenza. Non voglio passare per bigotto ma nemmeno far passare loro due per impenitenti libertini.

Tra le altre sue attività Bernard gestisce il Buffalo, che a dispetto del nome evocativo di vasti orizzonti oltre oceano è in realtà un velodromo. I cronisti riportano che dopo una visita di Toulouse-Lautrec al Buffalo sia nata la passione per la bicicletta, anzi per il ciclismo sportivo, eroico e simbolo di dinamismo.

Guarda le bici ma guarda di più i ciclisti. L’occhio dell’artista è rapito dal fisico di questi atleti che volano a velocità folli per l’epoca.

Suo primo ispiratore fu Augustus Zimmerman, capace di vincere una gara sui cento metri lanciati alla velocità di 66 km/h. Ora a noi potrebbe sembrare poca roba, ma ricordiamo che siamo alla fine dell’800, né cavalli né i primi veicoli a motore potevano rivaleggiare.

Giusto per farci una idea, la prima contravvenzione per eccesso di velocità di cui si ha notizia è del 1896 e fu inflitta a un automobilista londinese che viaggiava a 13km/h. Fu multato da un poliziotto che lo inseguì, e ovviamente raggiunse lesto, in bicicletta.

Fu così che Zimmerman divenne protagonista dei primi disegni a tema ciclistico di Toulouse-Lautrec, forse è stato il primo ciclista della storia a essere ritratto. Almeno il primo a essere ritratto in sella.

In piedi, trionfante e orgoglioso, accanto alla sua bicicletta. Zimmerman procede accompagnando in modo sicuro la bici. E in corsa: alcuni tratti all’indietro rendono i capelli mossi dal vento, e poche linee orizzontali sullo sfondo suggeriscono i bordi della pista ma conferiscono anche impressione di movimento. 

Credo però che l’opera più iconica sia quella commissionata dalla azienda Simpson e che vide la luce nel 1986. Ma ci arrivò per gradi diciamo così.

Sempre grazie a Bernard, Toulouse-Lautrec venne a contatto con tale Bouglé, ciclista appassionato e rappresentante della Simpson, azienda inglese produttrice di catene per bici alla quale serve pubblicità per valicare i patri confini. 

Bouglé sa che Toulouse-Lautrec eccelle nei manifesti pubblicitari (che sono arte, pensiamo a quelli che compose per il Moulin Rouge), naturale affidargli la campagna di marketing diremmo oggi.

Così l’artista francese parte per recarsi Oltremanica e definire i termini dell’accordo. Non ci si nutre di sola arte.

Scrive entusiasta alla madre: “Ho accompagnato una squadra di ciclisti che sono andati a difendere la nostra bandiera di là dalla Manica. Ho passato con loro tre giorni e sono tornato in Francia per creare un poster per la catena Simpson, che avrà un successo sensazionale”.

Toulouse-Lautrec, che è un perfezionista, vuole studiare da vicino i movimenti e le pose dei ciclisti, oltre la struttura di una bicicletta, per creare un’opera interessante e si augura di grande successo.

Restando su un linguaggio attuale, il testimonial selezionato è il gallese Jimmy Michael, vincitore della prima edizione del campionato mondiale di mezzofondo su pista. 

Toulouse-Lautrec sceglie di raffigurare Michael durante un allenamento in pista: di fianco inserisce la figura del giornalista sportivo François-Étienne Reichel, detto “Frantz”, e più indietro l’allenatore di Michael, l’inglese James Edward Warburton, detto “Choppy”, colto insieme a un altro ciclista mentre sistema una borsa.

Per imprimere dinamismo, Toulouse-Lautrec decide di dare un taglio fotografico alla scena: la ruota anteriore della bici di Michael rimane così tagliata fuori dalla composizione, come in un’istantanea fotografica, per suggerire all’osservatore l’impressione del movimento.

L’opera venne rifiutata perché la catena non è disegnata bene. E’ una prova, mancano le scritte e il nome dell’azienda, forse la bocciatura è stata frettolosa.

Comunque vuoi il tratto troppo deciso o le proporzioni innaturali, sta di fatto che se oggi la conosciamo è solo perché l’artista decise di stamparne a sue spese duecento copie, firmate con un monogramma a forma di elefante.

Prima che anche voi vi associate al rifiuto dell’opera, eccovi una immagine della catena Simpson: non lavorò di fantasia…

Però non è che metti alla porta Toulouse-Lautrec come fosse un grafico laureato sui social, quindi ecco la richiesta per un nuovo manifesto.

Cambia tutto, anche il protagonista che diventa il campione francese Constant Huret.

Il disegno si affolla, Huret chino a impugnare la piega da pista (che non è poi cambiata granché negli anni…) i muscoli che si gonfiano sotto sforzo, le guance sbuffano, i raggi spariscono per suggerire il movimento. Ancora un volta come in una foto, secondo una tecnica di cui è precursore.

E sempre con taglio fotografico davanti a Huret troviamo il Gladiator tandem, sul sellino posteriore Lisette Marton, campionessa europea e atleta sponsorizzata da Simpson, mentre chi conduce è sacrificato alle esigenze di dinamismo.

Sullo sfondo William Spears Simpson, il titolare dell’azienda di catene, e Bouglé passeggiano distratti, forse con un orecchio all’orchestrina sullo sfondo che spalle ai ciclisti mostra totale disinteresse per lo sport.

Non stupisce la presenza dei tandem in alto, in quegli anni erano assai diffusi. L’anno dopo in Inghilterra ne fu persino presentato uno elettrico, e-bike ante-litteram.

Il manifesto è ovviamente accettato.

Una curiosità. In basso a sinistra le iniziali di Louis Bouglé precedono la parola spoke, che noi sappiamo significare raggio in inglese. Era il soprannome di Bouglé, però malgrado mille ricerche non sono riuscito a sapere perché se lo ritrovò.

Purtroppo la catena Simpson non ebbe analogo successo di questo disegno, superata da modelli più efficienti e, diciamolo, anche meno inquietanti di questo marchingegno che suggerisce strumenti di tortura medievali piuttosto che l’allegria dell’andare in bici.

Solo che il successo del manifesto all’epoca seguì le cattive sorti del prodotto, quindi in quella fase ebbe poca fortuna perché poca fortuna ebbe la campagna pubblicitaria.

Eppure se noi oggi ricordiamo la catena Simpson, se la conosciamo, lo dobbiamo proprio a questo disegno e al genio di Henri de Toulouse-Lautrec. Anzi, i più non ricordano la catena ma conoscono il disegno…

Resto negli stessi anni e nella stessa Parigi ma cambio artista: Federico Zandomeneghi

La stessa Parigi ma vista, anzi vissuta con occhi diversi.

Non più la vita notturna, gli ultimi, la sofferenza (eppure mai la disperazione) ma la buona borghesia e addirittura l’alta società, le convenzioni sociali, le tranquille passeggiate sulla Senna o nei giardini.

Proprio nel 1896, lo stesso anno del manifesto Simpson, Zandomeneghi detto Zandò compone Incontro in bicicletta e Figurine in bicicletta.

Le donne di Zandomeneghi sono molto diverse dalle inquiline dei bordelli ritratte da Toulouse-Lautrec: eppure rivoluzionarie, dirompenti.

Perché è la bicicletta a renderle tali.

Osservatale: le bici sono da uomo (quelle da donna a telaio aperto non sono state ancora inventate), indossano pantaloni alla zuava, una buona parte delle gambe è scandalosamente esposta benché coperta dalle calze, sono sole senza un uomo a vegliarle.

Non sono chiuse in casa a leggere o ricamare come si conviene a una donna della buona borghesia parigina, vagano libere e con aria civettuola. 

Non da femme fatale, questo no. Piuttosto la consapevolezza della propria femminilità, della propria indipendenza.

La posa in attesa, la mano sul fianco, l’atteggiamento di chi è abituato a fare di testa propria, una certa impazienza a rimarcare il ritardo dell’amica.

E tutto mentre sono o hanno una bici, attività prettamente maschile. Perché seppure la Francia non abbia risentito della rigida morale vittoriana, l’eco della sconvenienza per una donna a saltare su una bici aveva traversato la Manica. 

Già, perché usare la bicicletta per una donna era disdicevole secondo la morale dell’epoca.

Vi racconto un episodio. Brooks, il primo ad aver brevettato una sella da bici e che oggi tutti noi conosciamo e usiamo, creò la sella con incavo centrale, vuota quindi, non come usa pensare oggi per allievare la pressione di noi maschietti in zone che non è decente descrivere: bensì per eliminare pressione alle donne in zone che è altrettanto indecente descrivere.

E non per tutelarne la salute (si, c’era che si aggrappava all’infertilità come risultato dell’andare in bici per le donne però vabbè…) ma per evitare che venissero, cito testuale: “sollecitati pensieri impuri e ricavato piacere”.

Per comprendere appieno quanto queste rappresentazioni di Zandomeneghi siano rivoluzionarie e lo siano grazie alla bicicletta dobbiamo calarci in quegli anni.

Come sempre accade bisogna guardarsi dal fuoco amico, spesso assai più letale.

Infatti a contrastare le donne in bici furono spesso proprio altre donne.

Il Chicago Tribune pubblicò il 25 luglio del 1891 un articolo in cui compariva la frase: “Una volta pensavo che la cosa peggiore che potesse fare una donna era fumare, ma ora ho cambiato idea. La cosa peggiore che ho visto in vita mia è una donna in sella a una bicicletta”.

A scriverlo era stata una donna. Che da perfetta suocera, proseguiva minacciando vita impossibile alla nuora ove mai avesse deciso di pedalare.

In una società classista furono le donne della buona società, per censo se non per comportamenti a giudicare col metro dell’epoca, che pedalando vennero meno a molti obblighi. Anche perché solo i membri delle classi agiate potevano permettersi una bicicletta, il loro costo era proibitivo; come adesso, potrei dire…

Le nostre dame in bicicletta anzitutto attiravano gli sguardi della gente, immorale per una fanciulla o una donna; e su questo posso dire che in fin dei conti non abbiamo fatto grandi passi avanti, perché se i tanti manuali pubblicati a fine ‘800 per spiegare alle donne le regole di buon comportamento proibivano di mettersi in mostra, farsi notare insomma, anche oggi la modestia è intesa virtù.

E se mostrarsi, seppure coperte all’inverosimile ma il metro di giudizio non era la quantità di pelle esposta (e infatti manco un centimetro…) era ritenuto poco virtuoso, ne consegue che le donne in bicicletta erano persona di dubbia moralità.

Erano e non fossero, condannate senza appello.

La medicina si affrettò a pronosticare infertilità e disturbi nervosi, ma in fin dei conti era la stessa medicina che ancora non aveva compreso quanto in ospedale si morisse per le infezioni, perché i medici manco si lavavano le mani, piuttosto che per le malattie o le ferite.

E sempre i medici rimarcavano quanto fosse faticosa la bici, quindi inadatta alla delicatezza femminile. E su questo posso parzialmente concordare, sia per la fatica (bei cancelli quelle bici) e sia perché queste poverine pedalavano con quasi sei chili di biancheria addosso, altro che i completini di lycra attuali. Insomma, saremmo svenuti pure noi maschietti.

Per finire, non dimentichiamo la tortura del corpetto, che a noi appassionati evoca la ruota libera della bicicletta, ai più maliziosi un intrigante indumento femminile celato allo sguardo, per le pioniere del ciclismo una gabbia che non le faceva respirare.

In soccorso a queste donne non prive di coraggio arrivarono i bloomer, ampi pantaloni alla zuava ritratti non solo da Zandomeneghi ma che possiamo vedere pure nel dipinto Le chalet du cycle au bois de Boulogne di Jean Béraut, del 1900 circa.

Inutile dire che la soluzione non fu ben vista. Dal pulpito i sacerdoti si scagliarono contro questo indumento peccaminoso, alle maestrine francesi fu proibito indossare i bloomer a scuola, Lady Harberton si vide negato l’ingresso a un caffè dove intendeva ristorarsi prima di proseguire la sua gaia pedalata.

Se questo il clima, allora i dipinti di Zandomeneghi vanno guardati oltre il puro dato artistico.

Le protagoniste sono donne che scelgono di battersi contro le convenzioni sociali per reclamare la propria indipendenza.

Lo fanno grazie alla bicicletta, che diviene essa stessa protagonista di una battaglia per l’emancipazione che le loro discendenti stanno ancora combattendo.

Ritrarre queste donne mentre sono in bici, mentre compiono quello che a noi oggi sembra normale, significa urlare il loro bisogno di indipendenza, di emancipazione. Oggi la chiameremmo parità di genere. E se ancora adesso è ideale che crea scompiglio, figuratevi alla fine dell’800.

Mi avvio a chiudere questo primo viaggio nell’arte, ho scelto di soffermarmi solo su due autori e solo su un periodo, anzi, potrei dire solo sul medesimo anno.

Abbiamo ancora tanto da esplorare perché la bicicletta è più della nostra passione. E’ l’unico veicolo che riesce a incarnare i bisogni e i desideri dei periodi che ha attraversato e che attraversa.

Forse è la sua capacità di farci sentire liberi, forse il fatto che in bici siamo soli coi nostri pensieri e la nostra fatica, forse la consapevolezza che non è mai una solitudine assoluta perché sempre legati ad altri che condividono il nostro sentire.

Forse più di tutto il fatto che la bici da sempre sia stata rivoluzionaria. Per le battaglie sull’emancipazione femminile, mai sopite e basta pensare alle donne afgane; per le attuali battaglie ambientaliste; e più in piccolo per le nostre battaglie quotidiane contro lo stress e i cattivi pensieri.

C’è molto più di quanto si vede in una semplice bicicletta.

Ma quello che è nascosto a noi comuni mortali non è celato allo sguardo dell’artista: e lo ringraziamo per avercelo mostrato.

Buone pedalate


Nota dell’autore. Questo primo articolo avvia un progetto che avevo in mente da tempo ma solo come idea, senza un preciso piano editoriale. Il filo comune è la bicicletta nelle arti. Però non intendo compiere una analisi tecnico/artistica delle opere, non ne avrei nemmeno le capacità, quindi non saltino dalla sedia gli esperti del settore, non intendo sostituirmi a loro.

Lo scopo, l’obiettivo che vorrei raggiungere, non è semplicemente mostrare come gli artisti hanno usato la bici nelle loro opere quanto piuttosto legare la bicicletta e l’arte in un unico percorso a tappe dove la bici da oggetto diviene emblema delle evoluzioni sociali e del sentire del suo tempo. Questo significa che non basterà una bici per citare l’opera e l’autore, anche perché dovrei altrimenti analizzare migliaia di opere. No, prenderò in considerazione quelle dove la bicicletta diviene emblema politico, sociale, filosofico se vogliamo, andando oltre la sua semplice funzione. Potrei dire lì dove la bicicletta è simbolo, non oggetto. E sempre con gli occhi del cronista, mai dell’esperto d’arte.

Per questo oltre autori e opere trovate il contesto storico e sociale. E dove necessario o possibile, anche qualche sintetica notazione tecnica (quanti di voi ricordano la catena Simpson?). Inoltre considerando il lungo viaggio, seppure in un articolo trovate cenni che vi sembrano incompiuti, valutateli come una anticipazione di future pubblicazioni. Per esempio in chiusura di questo cito rapido le donne afgane, è un indizio che quando toccherà al cinema (che pure è arte) il film “La bicicletta verde” troverà il suo posto.

E’ una idea ambiziosa, nessuno ci ha mai provato prima, almeno non con questa impostazione, ogni passo mi è ignoto. Non so dove condurrà questa strada, lo scoprirò insieme a voi potrei dire. Non so nemmeno fin dove arriverò, già definire cosa sia arte è diventato complicato, figuriamoci voler classificare e catalogare. Però questo blog nacque anche per sperimentare, per aprire nuove rotte sfruttando il fatto che non è qui per catturare click, non deve rendere conto a investitori o inserzionisti ma solo al vostro gradimento. Proprio per questo mai come questa volta mi servirà il vostro aiuto: suggerite, evidenziate le falle, indicate dove serve migliorare. Non aspettatevi una precisa cadenza editoriale, il lavoro di ricerca e selezione è lungo, ci lavorerò ogni volta che il mio tempo non dovrà essere altrimenti occupato. Grazie.

Fabio 

………..

Bici e Arte, articoli pubblicati

COMMENTS

  • <cite class="fn">antonio daniele</cite>

    …..Fabio che dire ! ottimo articolo e ottima iniziativa; oltre il puro aspetto tecnico (che è anche Arte!), da diffondere e condividere

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Grazie Antonio, spero di trovare il tempo per portare avanti questo progetto, strano forse ma credo possa maturare.

      Fabio

  • <cite class="fn">Ettore</cite>

    Articolo bello e interessante, un taglio diverso dal solito ma penso che era proprio quello che volevi dargli. Particolare, forse troppo per chi come me ti ha conosciuto con gli articoli sul fai da te e poi ti segue nei video. Ti seguo da anni, forse ho capito come ragioni e penso che questo sia l’unico posto dove è possibile trovare anche questo. Il bello di questo blog è proprio la sua varietà. Complimenti!

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Ettore, come ho spiegato nella nota conclusiva, questo blog non (in)segue la moda imperante della rete che esige brevità e superficialità per avere successo. Anche perché non cerco il successo ma solo fare quello che mi piace e che so di poter fare bene, perdona la presunzione.
      Del resto questo progetto non intacca i capisaldi del blog che sono l’officina e i test, questi ultimi ora a rilento sia perché con l’arrivo delle piogge tiro sempre i remi in barca e sia perché ho appena scoperto di avere un menisco lesionato e un altro “con evidenti segni degenerativi”, quindi per ora la bici devo fermarla.

      Fabio

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